Più volte sono state illustrate le due principali soluzioni adottate per tenere più basse possibili le pensioni dei lavoratori, attraverso la scelta di tassi di rivalutazione dei montanti contributivi e di conversione di questi montanti in rendita a dir poco opinabili, ma esiste anche un problema di genere collegato alla fruizione di periodi di lavoro ad orario ridotto.
Con il contratto part-time infatti la contribuzione che viene accantonata dal lavoratore sul proprio montante contributivo individuale e che verrà poi trasformata in pensione al cessare dell’attività professionale è ridotta, come l’orario e come la retribuzione.
Ci saranno quindi accantonamenti ridotti che comporteranno pensioni più basse.
La questione diviene di genere dando un’occhiata ai dati sul lavoro part-time in Italia. Nel 2010, ad esempio, delle persone in possesso di un lavoro ne risultavano impiegati a tempo parziale il 15 per cento.
Il dato per genere è però assolutamente polarizzato in quanto risultavano impiegati part-time appena il 5,5 per cento dei lavoratori di sesso maschile a fronte di un sostanzioso 29 per cento delle colleghe lavoratrici.
Con i dovuti arrotondamenti appena un uomo su 20 e quasi una donna su 3 oggi sono a part-time e domani percepiranno una pensione minore.
La quantificazione del danno è solo indicativa, come sempre in caso di proiezioni a lunga scadenza e su basi incerte, ma si aggira su una riduzione del rapporto tra il primo assegno di pensione e l’ultimo stipendio di poco meno dello 0,5 per cento per ogni anno di part-time al 75 per cento e poco meno dell’uno per cento per ogni anno di part-time al 50.
Così un lavoratore che resta in part-time al 50 per cento per 6 anni perderà una parte del proprio assegno di pensione pari al 6 per cento del proprio ultimo stipendio, mentre se avrà optato per il 75 per cento perderà appena, si fa per dire, il 3 per cento.
Trattandosi poi di una scelta così caratterizzata per genere, almeno in Italia, e che quindi denota come essa sia vissuta come una risposta, spesso l’unica possibile, ad altre problematiche, in primis familiari, è evidente come sia del tutto necessaria una risposta normativa che possa annullare o almeno limitare gli effetti pensionisticamente punitivi del lavoro ad orario ridotto.
In sintesi, almeno per chi percorre la strada del part-time in presenza di figli minori, almeno in presenza di figli molto piccoli o con disabilità, chi assiste (mi permetto di aggiungerci realmente) un parente invalido o è egli stesso invalido, almeno per i lavoratori part-time in queste particolari condizioni si dovrebbero cercare e trovare soluzioni.
La prima soluzione potrebbe essere quella di mettere a carico della fiscalità complessiva tutta o una parte della contribuzione mancante alla contribuzione full-time del lavoratore. Il lavoratore ed il datore di lavoro versano la contribuzione sulla quota di retribuzione derivante dalla quota di orario di lavoro svolta e la restante parte viene versata dallo Stato. Questa soluzione costa soldi veri oggi.
La seconda soluzione potrebbe invece essere quella di mettere a carico della fiscalità complessiva tutta o una parte della pensione mancante al lavoratore che gode oggi di part-time. I versamenti di oggi sono ridotti ed al momento della pensione si effettua il calcolo dell’assegno con i contributi effettivamente versati e come se i contributi effettivamente versati fossero stati quelli del lavoro full-time, mettendo a carico della fiscalità generale tutta o una parte della differenza.
Questo costa la promessa di soldi veri, e domani costerà soldi veri quando si dovranno pagare le relative integrazioni.
La terza soluzione, che è quella che sostanzialmente si sta percorrendo oggi, non costa nulla e si è già dimostrata vincente più volte, è quella del silenzio.
Nessuno ne parla, pochissimi se ne accorgono e molti, quando se ne accorgono, scoprono che è troppo tardi per fare qualcosa.
Amerigo Rivieccio
L'articolo su Dazebao
Nessun commento:
Posta un commento